Genitorialità
La genitorialità come paradosso della libertà: autorità, amicizia e il ritorno a sé
La genitorialità è il paradosso della libertà incarnata, un luogo in cui amore e alterità si intrecciano nella tensione irriducibile tra trattenere e lasciare andare, guidare e consentire, essere per l’altro senza annullarne l’essere. Essa rivela, nel suo nucleo più profondo, il dramma della relazione come apertura all’alterità e insieme come possibilità di tradimento di questa stessa apertura. La parabola del figlio prodigo ne è un emblema: un’arena simbolica dove si gioca il rapporto tra autorità, amicizia e autorevolezza, i tre modi fondamentali attraverso cui si declina il paradosso della relazione educativa.
L’autorità si struttura come imposizione, una forza che erige confini per disciplinare l’altro, trattenendolo nella sicurezza di un ordine che nega il rischio dell’errore. Ma questa negazione è, in ultima istanza, sterilità: il figlio, privato della libertà di partire, non potrebbe mai attraversare il proprio smarrimento né sperimentare il ritorno, un ritorno che non è solo geografico, ma ontologico, il ritorno a sé stesso. Qui l’autorità si rivela come una forma di possesso che soffoca la possibilità di diventare.
L’amicizia, opposto speculare, dissolve ogni limite in un eccesso di complicità, abolendo la distanza necessaria alla relazione autentica. Il genitore amico, confondendosi con il figlio, si annulla come figura verso cui tornare. Senza una casa simbolica, senza un centro che orienti il cammino, la libertà si perde nel vuoto dell’indeterminatezza, una deriva caotica dove il significato si disgrega. Un genitore amico, nella parabola, avrebbe seguito il figlio nella sua fuga, condivideva con lui le sue scelte e i suoi errori. Ma nel momento in cui il figlio si fosse trovato nel fango del porcile, non avrebbe avuto una figura verso cui tornare.
L’autorevolezza emerge così come il luogo della tensione, la forma di una presenza che non possiede, che non impone, ma che accoglie nella libertà. Il genitore autorevole accetta il rischio dell’alterità, il rischio che l’altro si perda per ritrovarsi, sapendo che il cammino verso la verità di sé è spesso un attraversamento del dolore. Egli non trattiene né abbandona, ma si fa casa aperta, un orizzonte verso cui l’altro può tornare e riappropriarsi di sé, trasformato dalla propria esperienza.
In questa tensione tra autorità, amicizia e autorevolezza si manifesta il senso radicale della genitorialità: un atto etico che testimonia l’amore nella sua forma più alta, quella che accoglie senza possedere e lascia libero senza disperdere. Amare, in questo contesto, significa abitare il paradosso della libertà, accettare che l’altro sia un enigma irriducibile, un essere in divenire che solo nell’attraversamento del proprio smarrimento può diventare pienamente sé stesso.