Lasciarli essere se stessi

Lasciarli essere se stessi

Il coraggio di lasciarli essere se stessi, a modo loro.
L’educazione non è mai un atto neutrale. È sempre un intervento sull’essere, un gesto che può liberare o imprigionare, accompagnare o dirigere. Eppure, nella sua essenza più profonda, educare significa dischiudere la possibilità che l’altro—l’adolescente—possa emergere nella sua unicità, nel suo essere per sé. Non secondo il nostro disegno, ma secondo il suo.
In questo senso, l’educazione autentica si pone come un atto etico e filosofico di estrema responsabilità: non possiamo cadere nella tentazione di ridurre l’altro alla nostra misura. Quando diciamo a un giovane “Sii te stesso”, spesso lo facciamo con un’ombra di presunzione, sottintendendo che sappiamo già cosa significhi, per lui o lei, essere autentico. Ma questa è una trappola del nostro ego: non possiamo mai possedere la verità dell’altro.
Martin Heidegger ci insegna che l’essere umano è un progetto, un dasein gettato nel mondo, che deve scegliere e costruire il proprio senso. Ogni adolescente vive questo progetto in modo unico, irriducibile alle categorie che cerchiamo di imporre. Tentare di definirlo significa sottrargli la possibilità di diventare. Come educatori, il nostro compito non è dettare un percorso, ma creare lo spazio affinché l’altro possa esplorare liberamente il proprio.
C’è, in questa prospettiva, una radicalità che sfida il nostro desiderio di controllo. È più facile pensare l’educazione come trasmissione di valori, regole, e modelli predefiniti. Ma questo approccio, per quanto rassicurante, rischia di soffocare il germoglio dell’essere, la fragile e meravigliosa singolarità che ogni adolescente porta in sé. Hannah Arendt ci ricorda che l’educazione è un atto di fiducia nel nuovo, nell’imprevedibile che ogni giovane rappresenta. Lasciarli essere “se stessi, a modo loro” significa accettare questa imprevedibilità.
La sfida più grande è abbandonare l’idea di possedere la risposta su cosa significhi “essere se stessi”. Perché il rischio è che il nostro “modo” di essere diventi una gabbia per l’altro. Come scriveva Emmanuel Levinas, l’altro è sempre un mistero che ci supera, un volto che ci chiama a una relazione di responsabilità e rispetto. Educare significa rispondere a questa chiamata, senza pretendere di colmare la distanza che separa il nostro essere dal loro.
L’adolescenza è il tempo in cui l’essere si svela nella sua apertura. Non è un tempo da riempire di risposte, ma da custodire con domande. Non è il tempo di plasmare, ma di ascoltare. È qui che l’educazione si fa poiesis, creazione, non nel senso di forgiare un’identità, ma nel senso di offrire le condizioni perché l’identità possa emergere da sé.
In definitiva, educare significa accettare che il nostro ruolo non è quello di creare copie di noi stessi, ma di essere testimoni del miracolo dell’altro che diventa se stesso. E questo, per quanto difficile, è l’atto filosofico più puro: riconoscere che ogni esistenza è una manifestazione irripetibile dell’essere, e che il nostro compito non è dirigerla, ma accoglierla, con tutto il coraggio e l’umiltà che questo richiede.