Rieducarsi per educare
La falsa credenza di non doversi rieducare per educare
C’è una convinzione, apparentemente innocua, che attraversa il nostro modo di rapportarci all’adolescenza: l’idea che sia una fase della vita sempre uguale, che si ripropone con le stesse dinamiche e gli stessi interrogativi di un tempo. Questa credenza, oltre a essere ingannevole, tradisce una profonda incomprensione del divenire umano. Essa rivela un nostro desiderio di fissità, di certezze immutabili, che si scontra però con la realtà fluida e mutevole della condizione adolescenziale nel mondo contemporaneo.
Rieducarsi non è un’opzione, ma una necessità ontologica, un atto di responsabilità verso l’altro e verso il tempo in cui viviamo. L’errore sta nel pensare che gli strumenti che ci hanno formati siano ancora adeguati, come se l’adolescenza fosse una categoria eterna, immune alle trasformazioni storiche e culturali. Ma l’adolescenza non è un’entità metafisica; è un’esperienza che si colloca nel qui e ora, e il qui e ora del nostro tempo è segnato da velocità vertiginose, frammentazioni di senso e una radicale esposizione alla complessità.
I modelli educativi del passato, forgiati in una società più lenta, più stabile, più prevedibile, si dimostrano oggi insufficienti, se non addirittura paralizzanti. La velocità della società contemporanea – con la sua accelerazione tecnologica, la smaterializzazione delle relazioni e l’incertezza esistenziale – non è semplicemente uno sfondo; è la condizione che plasma il modo in cui i giovani si formano, conoscono e abitano il mondo.
Rieducarsi significa, allora, assumere il coraggio dell’apertura. È riconoscere che ogni generazione si affaccia alla vita con una domanda diversa, un’inquietudine specifica, che non può essere affrontata con risposte prefabbricate. È accettare di non sapere, di mettersi in ascolto, di rivedere le proprie certezze e i propri paradigmi. È, in altre parole, un atto di conversione intellettuale ed etica, che ci chiede di uscire dai nostri schemi per accogliere la differenza radicale dell’altro.
La falsa credenza che non sia necessario rieducarsi è, in fondo, una forma di arroganza. È il rifiuto di confrontarsi con il tempo, con la storia, con l’alterità. È il tentativo, sempre fallimentare, di fermare il flusso della vita per preservare un’illusione di controllo. Ma educare – e rieducarsi – non è mai stato un gesto di controllo. È, piuttosto, un atto di amore per il possibile, un atto che riconosce nell’altro non solo ciò che è, ma ciò che può diventare.
Non si tratta di guidarli dall’alto, ma di camminare accanto a loro, costruendo un dialogo in cui anche noi adulti ci lasciamo trasformare.